PER UNA «SVETRINIZZAZIONE »DELLA PRATICA DI ĀSANA NELL’ERA DIGITALE


di Maria Chiara Mascia

* Questo articolo è uscito a luglio 2019 sul numero 76 “Il linguaggio della pratica” di “Percorsi Yoga”, semestrale pubblicato da Y.A.N.I. Yoga Associazione Nazionale Insegnanti.

Il trasmigrare delle tradizioni spirituali e culturali chiamate yoga, mai uniformi né monolitiche, dal subcontinente indiano alle società urbanizzate dell’Occidente, è una storia di adattamenti, di traduzioni e di trasformazioni, avvenuta in risposta ai differenti contesti e visioni del mondo in cui la disciplina è stata diffusa, recepita e si è affermata.
In questa serie non lineare di eventi, l’avvento dei nuovi media ha portato a una crescita esponenziale di contenuti yoga. Il web e le piattaforme dei social network sono diventate uno dei luoghi privilegiati della produzione e diffusione di contenuti riguardanti tutto lo spettro semantico e merceologico del fenomeno yoga, plasmandone i linguaggi e l’immagine sociale, assumendo sempre più un ruolo determinante per la pratica nel suo complesso. Noi stessi come praticanti e insegnanti assistiamo e partecipiamo, in diretta, a una nuova fase di questa «on-going experimentation in a global context» [1] come è stata definita da M. Singleton e E. Goldberg (2014).

Le operazioni culturali di pionieri come Vivekananda, Krishnamacharya o Kuvalayananda, traduzioni di tradizioni [2], furono tra le prime e più influenti messe in scena dello yoga moderno attraverso i media dell’epoca. Si pensi, ad esempio, alle testimonianze visive dell’insegnamento di Krishnamacharya durante gli anni di Mysore, alle le fotografie che corredano lo Yogamakaranda del 1935 [3] e al filmato che ha immortalato, per la prima volta nella storia, una sequenza in movimento di āsana e tecniche di prāṇāyāma [4].

L’aspetto performativo, presente già nelle tradizioni di haṭha-yoga, era un costituente essenziale della pratica insegnata ai giovani nella yogaśālā, pratica che veniva poi regolarmente dimostrata alla corte del Maraja ai fini della promozione dello yoga come sistema di educazione e cultura fisica ‘indigena’ [5]. Da questi documenti figurativi possiamo far partire il proliferare delle immagini di āsana dello yoga posturale moderno, passando dalla carta stampata – un testo su tutti, ‘Light on Yoga’ di BKS Iyengar (1963) – alla televisione, a Youtube fino all’odierna vetrina permanente dei social media.

 

LA «VETRINIZZAZIONE» SOCIALE

Il fenomeno della «vetrinizzazione» [6] è stato indagato dal sociologo Vanni Codeluppi, che lo descrive come un processo sociale e culturale, sviluppatosi ininterrottamente dal Settecento, che oggi coinvolge ogni ambito della società. La vetrina è il filtro trasparente tra l’individuo e le merci esposte. E’ progettata per mettere in luce e far apparire positiva e seducente ogni merce: è quindi uno strumento di persuasione caratterizzato dal valore dell’istantaneità e della gratificazione immediata, costituisce uno spazio di sogno ideale, privo di problemi.
La logica comunicativa della vetrina si è progressivamente estesa dai luoghi della vendita propriamente detti alla società, e i nuovi media ne sono il campo perfetto, in quando capaci di produrre l’immagine di un mondo meno problematico, più attraente di quello vero. Nella ‘società della trasparenza’, descritta dal filosofo coreano Byung-Chul Han [7], le cose diventano trasparenti perché liberate da ogni negatività, sono spianate e livellate.
Non si tratta solo di spettacolarizzazione: la fusione dei linguaggi che si può trovare negli schermi dei dispositivi portatili (foto, video, audio), il carattere di interattività con il mondo reale e la loro diffusione capillare annullano, sempre più, la distanza tra gli individui e i media – con il rischio di annullare ogni distanza tra spazio pubblico e privato. I media tendono a fondersi nei corpi e nei vissuti, sono dei ‘media biologici’ [8] e stanno diventando il tramite principale dell’esperienza del mondo di molte persone. Qui il digitale diventa più reale del reale, iperreale.

 

IL CORPO IN VETRINA

Il corpo è uno degli ambiti di elezione della ‘vetrinizzazione’ sociale sui media: ‘vetrinizzarsi’ non è il semplice ‘mostrarsi’ ma è una trasparenza totale in cui tutto può essere esposto. Il ‘corpo vetrinizzato’ non ha più alcun segreto, è conosciuto a livello molecolare, oppure è esaltato per la sua bellezza o per la sua efficienza, ogni negatività e problematicità è livellata.
Tra i linguaggi visuali del microcosmo yoga, esempio classico di positività totale a-problematica è stata la serie di copertine dello Yoga Journal americano tra il 2006 e il 2017 [9] che mostrano quasi sempre una donna bianca, dal corpo perfetto e dal sorriso perenne, limitando al massimo la presenza di uomini, donne asiatiche o di colore, ecc. Questo modello ‘dall’alto’ si replica in continuazione ‘dal basso’ nella sterminata mole d’immagini uniformate condivise dagli utenti su piattaforme come Instagram, disponibili quotidianamente nei palmi delle mani di praticanti presenti e futuri, e il cui carattere di pervasività è tale che non è possibile semplicemente ignorarle.
Se il digitale diventa più reale del reale, queste immagini non possono non diventare sempre più parte integrante delle aspettative dei praticanti. La lezione di gruppo può resistere alla pressione esercitata dalla vetrina?

 

INCLUSIVITA’ E ACCETTAZIONE DEL PROBLEMATICO

Da alcuni anni stanno riemergendo sempre di più i temi dell’inclusività e dell’accessibilità della pratica, dell’accettazione del problematico e di ciò che è percepito ‘diverso’. Si propone un linguaggio più inclusivo della lezione [10] per condurre delle classi in cui, ad esempio, al fine di ridurre la forza dei modelli performanti non siano date gerarchie di livelli nelle posture e non siano sminuiti gli adattamenti, o in cui il corpo e le sue sensazioni non siano rese completamente intellegibili e ‘trasparenti’ dall’insegnante.
Un recente blog di Kino MC Gregor (maggio 2019) dal titolo ‘Would you still love me if I don’t handstand anymore?’ [11] rientra in questa tendenza che sembra voler scalfire proprio i modelli più in vista, ma la richiesta di approvazione rivolta ai propri follower ne svela anche un carattere di auto-promozione. Infatti, il corpo – non escluso il corpo del praticante yoga – funziona oggi come forte strumento di comunicazione a disposizione degli individui per trasmettere la propria identità agli altri, diventa un packaging.

 

LA COERCIZIONE DELLA PERFORMANCE

Nella società della vetrina, tutte le attività sociali, professionali, private, sono sottoposte ad uno sguardo spettatoriale diffuso e la presenza pervasiva di dispositivi muniti di videocamera ci rende tutti costantemente esposti. Gli individui sono in qualche misura costretti alla performance continua, alla prestazione. Questo produce una forte dipendenza psicologica fino a diventare una forma di costrizione: un bisogno auto-prodotto.
Tutti collaborano attivamente a costruire e mantenere in piedi un ‘panottico digitale’ [12] consegnandosi quindi a forme di auto-sfruttamento. Diventiamo progetti che concepiscono e ottimizzano se stessi, che accumulano performance. Se tutto nella vita può essere usato in funzione del progetto di costruzione dell’identità digitale, la tentazione di condividere qualsiasi evento sui social è fortissima: da qui popolarità del selfie.
E parallelamente cresce lo #yogaselfie, la pratica di fotografarsi in āsana, generalmente durante la pratica personale, a testimonianza dell’avvenuto progresso nel progetto, attuando l’auto-censura di contenuti non-positivi per valorizzare i soli positivi. Lo #yogaselfie è talmente popolare da comparire in un episodio della serie TV di Netflix Black Mirror intitolato ‘Caduta Libera’ (Nosedive) come uno degli strumenti per far salire il proprio ranking all’interno di un mondo in cui tutti sono costantemente oggetto di valutazione da parte degli altri.

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Fotogramma da “Nosedive”, Black Mirror series

Ma non solo: anche se in misura inferiore, si vedono insegnanti auto-immortalarsi durante le lezioni di gruppo, spesso con lo sfondo dell’affollata classe in śavāsana. Quando si dovrebbe garantire uno spazio di abbandono, fiducia e silenzio, si trasformano invece gli allievi in oggetti della propria personale performance, cedendo alla tentazione di sfruttare ai fini del proprio progetto gli spazi, i tempi, i corpi della pratica consegnandoli al chiasso dei media digitali.

 

ACCELERAZIONE E ACCUMULO

Da dove viene questa spinta a comunicare immediatamente le performance? Il tempo della performance è un costante presente, indipendente dal passato e dal futuro, un perenne qui e ora. Ogni performance esibita funziona a sé, è un momento puntuale che appiattisce la durata e la sua rapidità impedisce all’esperienza di essere elaborata, ‘digerita’. Ogni giorno bisogna quindi produrre nuove performance e questa «corsa continua all’accumulo di performance è una sostanza stupefacente che dà dipendenza» [13], alimentata dall’ansia di restare fuori dal sistema. Si sperimentano sempre nuovi modi di praticare, nuove sfide, #yogachallenge, in cui mettersi alla prova, si diventa ‘turisti’ della pratica.

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Collage di yoga selfie da Instagram

Ma le azioni che richiedono tempo non sono funzionali alla performance. Riprendendo Byung-Chul Han: «il turista si mantiene nel presente, nel qui e ora, non è veramente in cammino […] mentre al pellegrino non si può mettere fretta. Il percorso seguito dai pellegrini non è un passaggio da compiere il più velocemente possibile, ma è piuttosto una ricca via semantica […]. I significati si sviluppano solo mediante attraversamenti e soglie, anzi mediante resistenze» [14].
Una lezione di yoga come evento puntuale, di consumo performativo, si accorda molto bene non solo con le classi on demand sul web, ma anche con la possibilità di praticare ‘a gettone’ in centri che offrono una molteplicità d’insegnamenti e tradizioni diverse, mentre un discorso più articolato, ricco di significati, è possibile solo lungo un percorso direzionato che sviluppi nel tempo la possibilità di elaborare l’esperienza.

 

«SVETRINIZZARE»?

Roland Barthes aveva definito la sfera privata «quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto» [15]. Oggi invece gli spazi privati, quelli che dovrebbero essere riservati, sono invasi, illuminati e sfruttati dai media digitali. Una lezione si presta alla ‘vetrinizzazione’ quando si attua un livellamento del problematico, dello sgradevole, in funzione di una positività sempre presente e senza percorso, senza storia, finalizzata alla performance. Si realizza la ‘vetrinizzazione’ quando il suo spazio da privato diviene pubblico, viene sottoposto allo sguardo dello spettatore grazie alla produzione di immagini –identiche a migliaia di altre– catturate e condivise tramite dispositivi e media digitali. Con il dispositivo tra le dita, l’insegnante diventa il primo agente della trasformazione della lezione dalla realtà all’irrealtà, dal campo dell’esperienza a quello della vetrina.

È possibile trovare una via di mezzo tra il semplice ‘mostrare’ e il ‘mettere in vetrina’? Si possono conciliare le esigenze di diffusione culturale (e di promozione) della disciplina con il tentativo di ricreare una distanza, opacizzare la trasparenza della vetrina?

Per Byung-Chul Han:
«L’anima umana ha palesemente bisogno di sfere nelle quali possa sostare in sé, senza lo sguardo dell’Altro: è dotata di impermeabilità. Un’illuminazione totale la incendierebbe e provocherebbe una particolare forma di burnout spirituale» [16].

Lasciare quindi spazi di apertura al problematico, all’inefficienza, alla durata temporale, al silenzio. «Il medium dello spirito è il silenzio –continua Byung-Chul Han. L’additività, prodotta dal frastuono comunicativo, non è l’andatura dello spirito».

NOTA: Questo breve articolo non può e non vuole restituire un panorama esaustivo del fenomeno della vetrinizzazione della pratica di yoga e della lezione collettiva, ma solo un punto interrogativo stimolato in particolare dalla lettura dei saggi del sociologo Vanni Codeluppi e del filosofo Byung-Chul Han.

RIFERIMENTI
[1] SINGLETON M., GOLDBERG E. (a.c.d.), Gurus of Modern Yoga, Oxford University Press, New York 2014.
[2] Cfr. le griglie interpretative in SQUARCINI, F., MORI L., Yoga. Fra storia, salute, mercato, Carocci, Roma 2008.
[3] Cfr. SJOMAN, N.E. The Yoga Tradition of the Mysore Palace, Abhinav Publications, Delhi 1996.
[4] DIAMOND, DEBRA (a.c.d.), Yoga. The Art of Transformation, Freer Gallery of Art and The Arthur M. Sackler Gallery, Smithsonian Institution, 2013, catalogo della mostra, Washington 2013. Varie parti del filmato sono facilmente reperibili in rete.
[5] SINGLETON, MARK, Yoga Body: The Origins of Modern Posture Practice, Oxford University Press, New York 2010.
[6] CODELUPPI, VANNI, Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Bari-Roma, 2012 e Idem, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Borringhieri, Torino 2017.
[7] BYUNH-CHUL HAN, La società della trasparenza, Nottetempo, Roma 2014 e IDEM, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma 2015.
[8] CODELUPPI, VANNI, Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite, Carocci, Roma 2018.
[9] Si veda l’archivio digitale della rivista: https://www.yogajournallibrary.com/browse/.
[10] Ad es. https://bodypositiveyoga.com/making-yoga-more-inclusive-language-dos-and-donts-for-teachers/ e https://yogainternational.com/article/view/the-importance-of-body-affirming-language-in-yoga-class.
[11] https://www.kinoyoga.com/would-you-still-love-me-if-i-dont-handstand-anymore-by-kino-macgregor/
[12] BYUNG-CHUL HAN, La società della trasparenza, op. cit.
[13] GANCITANO, M., COLAMEDICI A., La società della perfomance, Edizioni Tlon, 2018.
[14] BYUNG-CHUL HAN, La società della trasparenza, op. cit.
[15] ROLAND BARTHES, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
[16] BYUNG-CHUL HAN, La società della trasparenza, op. cit.
[17] BYUNG-CHUL HAN, Nello sciame, op. cit